La critica lo ha stroncato, il pubblico ha
lanciato le bibite contro lo schermo e i bambini hanno pianto. Eppure a noi è
piaciuto. Il critico cinematografico del “Guardian” Mark Kermode lo ha definito
“assolutamente nonsense”. Eppure a noi
è piaciuto. Se Jupiter Ascending è un “nonsense”, allora lo è anche Matrix.
Alzi la mano chi, alla fine del terzo film della trilogia di Neo, ha avuto la
sensazione di aver compreso perfettamente tutto quello che c’era da capire. Se
avete alzato la mano, tiratela giù perché tanto state mentendo.
In entrambe queste
pellicole, infatti, è proprio l’esorbitanza dell’universo creato, l’immensità
dell’affresco a lasciare esterrefatti pubblico e critica. Insomma, risulterà
sempre un nonsense a chi non si concentra per comprendere le dinamiche
politico-economiche-sociali che stanno alla base della trama più spicciola, a
cogliere gli elementi descrittivi di un universo estremamente complesso:
c’è Horus, il vero
pianeta di origine della razza umana, soffocato dalla sovrappopolazione e dalla
burocrazia, i cui ingranaggi si oliano, persino nella fantascienza, con le
mazzette; c’è Giove, trasformato in fornace industriale (molto simile al
Mustafar di Star Wars); c’è la Terra, ridotta a uno dei tanti “allevamenti” per
ricavare l’elisir dell’eterna giovinezza; un universo in cui il crudele Balem è
spinto, come ci racconta in un lungo monologo, dal profitto e dal
soddisfacimento delle leggi di mercato.
Dietro tutto questo
c’è sempre lo zampino dei fratelli Wachowski (questa volta violentemente critici
con il capitalismo più sfrenato, quello che per creare un misero flacone di
elisir d’immortalità miete cento vite) che proprio dal loro più grande successo
raccolgono a piene mani: al centro dell’immaginario catastrofico dei due
registi-sceneggiatori c’è sempre la coltivazione (e la mietitura) della razza
umana; gli uomini, da predatori di risorse planetarie (come in tantissima
fantascienza), sono ancora una volta risorse essi stessi, prede di altri
crudeli coltivatori.
Antichissime
famiglie spaziali inseminano con i propri geni pianeti disponibili alla vita (sulla
terra hanno anche fatto estinguere i dinosauri) e quando la popolazione
raggiunge un numero congruo viene mietuta per ottenere una sostanza luminescente
blu che permette di vivere in eterno. I diritti di mietere questo raccolto di
vite umane nei diversi pianeti sono dei tre rampolli della famiglia Abrasax, entrati
in possesso dei vari mondi dopo l’assassinio della madre (indovinate chi ha
fatto in modo di liberarsi della vecchia mammina?).
Detto questo, la
trama (quella spicciola) è indubbiamente banale e scontata, per quanto l’azione
sia ben costruita e sempre dinamica; forse però, proprio il fatto che lo
spettatore non debba focalizzarsi sul succedersi degli eventi, dovrebbe
spingerlo a concentrarsi sui dettagli utili a ricostruire il mondo in cui l’azione
si svolge.
Caine, un misterioso e sensuale ibrido uomo-lupo (Channing
Tatum), inizialmente assoldato per trovarla, è poi sempre e comunque pronto a combattere
per salvare la bella donzella in pericolo Jupiter (Mila Kunis); la ragazza è l’insospettabile
reincarnazione genetica (e quindi ereditiera ufficiale), nata sulla terra, della
madre dei tre rampolli di nobile lignaggio che già si stavano godendo l’eredità
ed erano pronti a mietere il loro sanguinoso raccolto. Quindi, essenzialmente, il
bieco motivo di tanti sforzi profusi per l’uccisione dell’affascinante Jupiter
riguarda mere questioni ereditarie.
Non c’è tuttavia da preoccuparsi, il bel principe
azzurro sul suo bel cavallo bianco arriverà sempre in soccorso, con i suoi
rollerblade a inversione di gravità, della fanciulla in caduta libera; tranne
quando lei, tutta da sola, riesce a prendere a sprangate il cattivo. Dal punto
di vista della trama, evidentemente, c’è stato un salto indietro di 20 anni. Persino
la Disney, ormai, ha ceduto al girl power (The
Brave, Frozen, ecc.), alla
fanciulla che si salva da sola, che degli uomini, in realtà, non ha neppure
troppo bisogno.
Potremmo però dire anche la stessa cosa di Avatar: la trama è niente di più che
quella di Pocahontas, eppure ha raggiunto incassi nell’ordine dei miliardi di
dollari. Il fascino dell’universo di Avatar,
però, stava nella sua evidenza immaginifica, nella sua facilità di fruizione: strani
animali, foreste intricate luminescenti, crudeli società predatrici di risorse (ancora
l’uomo arraffone, oltretutto), ecc. Insomma, nulla per capire il quale servisse
spremersi le meningi.
Bravo il premio Oscar Eddie Redmayne nella parte di Balem, il patologico (e con un rapporto con
la madre parecchio ambiguo) primogenito di casa Abrasax; Mila Kunis fa quello
che deve con quei begli occhioni profondi e lo sguardo da pesce arrapato quando
guarda l’uomo-lupo, con il quale ci prova spudoratamente ma lui, per assurde
motivazioni di “ceto sociale”, la ignora; Channing Tatum, oltre a frustrare il
desiderio sessuale di Jupiter (salvo alla fine), essenzialmente spara, dinamico
e travolgente come sempre.
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