Difficile dire cosa non mi abbia convinto in Jurassic World.
L’azione c’è. L’ironia, fatta dagli stessi personaggi sugli aspetti più
scontati della trama, pure. La suspance, insomma. Quelli che incontrano l’Indominus
Rex, poco ma sicuro, ci rimangono, visto che fin da subito è chiaro che il
nostro giurassico amico uccide per puro divertimento. La trama ha dei tratti
originali (l’addestramento dei Velociraptor per scopi bellici, ad esempio), sebbene
lo schema vincente “dinosauro cattivo-umani che scappano” non permetta grosse
divagazioni. A correggere le manchevolezze di una sceneggiatura talvolta troppo
elementare concorrono comunque le buone scelte di casting, con l’accoppiata Bryce
Howard / Chris Pratt (il maschio alfa) che va alla grande.
Volendo fare a tutti i costi le persone d’alta cultura potremmo
addirittura vedere in Jurassic World una sorta di peccato di hybris, ossia “la superbia degli uomini che
sfidano le leggi divine”: l’uomo, nuovo demiurgo, forma la natura per necessità
di marketing, creando un abominevole ibrido geneticamente modificato che in sé
somma tutte le più terribili caratteristiche omicide del predatore, compresa
l’intelligenza e la capacità (o mmmmmio Dio) di mimetizzarsi come un camaleonte
e di rendersi invisibile agli infrarossi. Insomma una moderna macchina da
guerra.
Ovviamente, queste straordinarie capacità, sconosciute agli
scienziati (molto cortese farle scoprire ai soldati mandati per uccidere la
nuova specie … ), sono frutto degli innesti di DNA di camaleonti, rane, salamandre,
serpenti, ecc. necessari per completare la sequenza genetica, esattamente come
era successo nel primo film. Nella prima
pellicola, infatti, i dinosauri, creati tutti femmine, riuscivano a sorpresa a
riprodursi in autonomia grazie ai geni di una particolare rana in grado di
mutare sesso. Come al solito, insomma, non impariamo mai dai nostri errori.
In ogni caso, saranno poi le specie “naturali”, ossia quelle
realmente esistite, a coalizzarsi nell’epilogo per eliminare l’obbrobrio assassino.
Ecco un altro punto interessante: uno scontro tra il “naturale” e l’artificiale,
tra i lucertoloni realmente esistiti e quello creato, nato e cresciuto in
laboratorio. Veramente epica la lotta finale tra l’Indominus e il Tirannosauro
che vede la vittoria dell’unico vero Rex,
fino a quel momento quasi assente, che si conquisterà anche la scena finale,
con l’ormai classico ruggito dalla collina.
Avvincente anche l’eterna competizione per il ruolo di maschio
alfa per il controllo del branco dei Raptor; una dinamica che si ritrova persino
nella scena del Mosasauro che si pappa lo squalo bianco: un vecchio predatore
che annichilisce quello che dovrebbe essere il maschio alfa dei mari odierni. A
parte tutto questo, tuttavia, al film manca qualcosa. Mancano i dinosauri fine a se stessi, manca l’emozione (quella del bambino non è all’altezza, è troppo
scontata) di chi vede i dinosauri per la prima volta.
È un film d’azione, come il terzo capitolo della serie di
Jurassic Park, nulla di più. Vedendo la scena dell’incontro dei paleontologi con
il brachiosauro (e l’abile mano di Spielberg alla regia) o quella del Triceratopo
malato nel primo film della serie, mi vengono ancora i brividi. Forse, però,
nel 1993, gli effetti speciali che facevano rivivere i dinosauri sullo schermo
potevano ancora dare queste emozioni, oggi, che al digitale e alle sue finzioni
siamo assuefatti, tutto questo non è più possibile.
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