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27 giugno 2015

Jurassic World, dinosauri senza emozione


Difficile dire cosa non mi abbia convinto in Jurassic World. L’azione c’è. L’ironia, fatta dagli stessi personaggi sugli aspetti più scontati della trama, pure. La suspance, insomma. Quelli che incontrano l’Indominus Rex, poco ma sicuro, ci rimangono, visto che fin da subito è chiaro che il nostro giurassico amico uccide per puro divertimento. La trama ha dei tratti originali (l’addestramento dei Velociraptor per scopi bellici, ad esempio), sebbene lo schema vincente “dinosauro cattivo-umani che scappano” non permetta grosse divagazioni. A correggere le manchevolezze di una sceneggiatura talvolta troppo elementare concorrono comunque le buone scelte di casting, con l’accoppiata Bryce Howard / Chris Pratt (il maschio alfa) che va alla grande.

Volendo fare a tutti i costi le persone d’alta cultura potremmo addirittura vedere in Jurassic World una sorta di peccato di hybris, ossia “la superbia degli uomini che sfidano le leggi divine”: l’uomo, nuovo demiurgo, forma la natura per necessità di marketing, creando un abominevole ibrido geneticamente modificato che in sé somma tutte le più terribili caratteristiche omicide del predatore, compresa l’intelligenza e la capacità (o mmmmmio Dio) di mimetizzarsi come un camaleonte e di rendersi invisibile agli infrarossi. Insomma una moderna macchina da guerra.  

Ovviamente, queste straordinarie capacità, sconosciute agli scienziati (molto cortese farle scoprire ai soldati mandati per uccidere la nuova specie … ), sono frutto degli innesti di DNA di camaleonti, rane, salamandre, serpenti, ecc. necessari per completare la sequenza genetica, esattamente come era successo nel primo film.  Nella prima pellicola, infatti, i dinosauri, creati tutti femmine, riuscivano a sorpresa a riprodursi in autonomia grazie ai geni di una particolare rana in grado di mutare sesso. Come al solito, insomma, non impariamo mai dai nostri errori.

In ogni caso, saranno poi le specie “naturali”, ossia quelle realmente esistite, a coalizzarsi nell’epilogo per eliminare l’obbrobrio assassino. Ecco un altro punto interessante: uno scontro tra il “naturale” e l’artificiale, tra i lucertoloni realmente esistiti e quello creato, nato e cresciuto in laboratorio. Veramente epica la lotta finale tra l’Indominus e il Tirannosauro che vede la vittoria  dell’unico vero Rex, fino a quel momento quasi assente, che si conquisterà anche la scena finale, con l’ormai classico ruggito dalla collina.  

Avvincente anche l’eterna competizione per il ruolo di maschio alfa per il controllo del branco dei Raptor; una dinamica che si ritrova persino nella scena del Mosasauro che si pappa lo squalo bianco: un vecchio predatore che annichilisce quello che dovrebbe essere il maschio alfa dei mari odierni. A parte tutto questo, tuttavia, al film manca qualcosa. Mancano i dinosauri fine a se stessi, manca l’emozione (quella del bambino non è all’altezza, è troppo scontata) di chi vede i dinosauri per la prima volta.



È un film d’azione, come il terzo capitolo della serie di Jurassic Park, nulla di più. Vedendo la scena dell’incontro dei paleontologi con il brachiosauro (e l’abile mano di Spielberg alla regia) o quella del Triceratopo malato nel primo film della serie, mi vengono ancora i brividi. Forse, però, nel 1993, gli effetti speciali che facevano rivivere i dinosauri sullo schermo potevano ancora dare queste emozioni, oggi, che al digitale e alle sue finzioni siamo assuefatti, tutto questo non è più possibile.


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