C’è apologia? Sì. Per questo il film è meno accattivante? No.
Meno stimolante? Assolutamente no. American Sniper avrebbe potuto far discutere
molto di più rispetto alle tiepide reazioni che ha provocato. Per una volta però
non c’è stata l’alzata di scudi preventiva, prima ancora che il film uscisse
nelle sale, contro una pellicola che poteva essere smaccatamente militarista.
Per fare un esempio nostrano: quando ACAB venne presentato
non mi ricordo bene dove (a Roma, immagino) gruppi di giovani indignati protestarono
contro un film che ancora non avevano visto, immaginando (colpevolmente) che fosse
in difesa di comportamenti violenti delle forze di polizia da loro tanto
disprezzate. Questo, ovvero la critica aprioristica, se mi
posso permettere, non è accettabile in persone adulte. Ma torniamo al nostro American Sniper.
Clint Eastwood traccia, con un lavoro al solito impeccabile,
la vita di Chris Kyle, il «più letale cecchino della storia dell’esercito
americano». Clint, come è noto, è solidamente repubblicano, anche se non sempre
allineato alle ali più conservatrici del suo partito. Il protagonista (Bradley
Cooper), ossessionato dal “proteggere”, nato in una tradizionale famiglia
texana religiosa e amante della caccia, si unisce non giovanissimo ai Navy Seal.
Mandato in Iraq per appoggiare come tiratore scelto le operazioni di terra dei
marine, finirà per diventare la “Leggenda”.
Il film riporta gli avvenimenti (la pellicola si ispira all’omonima
autobiografia di Kyle) rispettando in tutto l’ideologia del personaggio. Il
centro è sempre Chris Kyle e il suo desiderio, in parte anche di vendetta su
chi ha ucciso i suoi commilitoni, di salvare quanti più uomini gli è possibile.
Un bisogno di “fare il proprio dovere” che addirittura potrebbe mettere in
crisi il suo rapporto con la moglie, stanca di crescere i figli da sola. Un solido
eroe americano che mai mette in dubbio la sua ideologia e, anzi, prova rancore
nei confronti di una società che vuole tenere a distanza lo spettro di una guerra
lontana.
Nel personaggio, come nel film, dal momento che esso è
sviluppato dal personale punto di vista del protagonista, non c’è critica alle
violenze né tantomeno all’uccisione dei civili (eccessiva la scena in cui prega
affinché un bambino non raccolga un lanciarazzi). Egli, infatti, appare
comunque come il buono della situazione. L’ideologia della “guerra al
terrorismo” resta sempre granitica, mai viene messa in discussione.
Il vantaggio è però quello di riuscire a penetrare un
pensiero, forse lontano dal nostro, ma certamente interessante; starà poi allo
spettatore sviluppare, attraverso il proprio senso critico, la psicologia del
personaggio e il modello che esso porta con sé. Scrivendo penso ancora ad ACAB:
nel film, razionalmente, stare dalla parte dei celerini corrotti e sanguinari è
impossibile, appoggiare il loro senso distorto di giustizia è inammissibile, tuttavia
comprenderne il pensiero (il desiderio di fare pulizia e di portare ordine e
giustizia, seppur con metodi estremi), e sottilmente farsene accarezzare, non è poi così impensabile.
È l’insanabile spettro del “male per un fine più alto”, che
torna prepotente ogni volta che una crisi, economica o antropologica che sia, fa
capolino. Azioni violente, tragiche e drammatiche sono ammissibili quando è in
gioco un fine superiore? La risposta la dovete cercare voi. Quando un
personaggio, in una posizione che ci sentiremmo in dovere di condannare (come un
cecchino che spara a un bambino), viene trattato come il buono, come colui che
combatte per “un fine più alto”, è in quel momento che il nostro senso etico e
i nostri valori vengono messi alla prova dei fatti.
Alla prova in situazioni fittizie, certo, come sono
quelle cinematografiche, che tuttavia provocano ugualmente un confronto profondo
tra sé e il mondo. Chiudo quindi dicendo che se un film suscita questi
interrogativi, spinge a queste riflessioni, allora non potrà essere un cattivo
film …
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