Un po’ come i Promessi Sposi (mi scuseranno gli italianisti per la blasfemia del paragone), l’Italiano Medio ha la ricchezza del prodotto culturale capace di farsi apprezzare dalla “servetta” quanto dall’intellettuale o pseudo intellettuale. Tanti i possibili livelli di lettura, da quello basilare della trama spicciola e delle gag esilaranti, all’intreccio di citazioni cinematografiche più o meno esplicite, fino alla critica impietosa alle genti che vivono nell’italietta contemporanea.
Tempo fa recensii la Grande Bellezza. Lo sforzo che mi richiese quella pagina non è nulla rispetto alla fatica di scrivere su una pellicola così sfuggente e difficile da inquadrare. Rispetto al capolavoro di Sorrentino, l’Italiano Medio è più subdolo e, forse, più ricco nella sua pazzia; ben più vicino a ognuno di noi delle mollezze e della corruzione della Roma sorrentiniana, il film di Marcello Macchia è una follia che in primo luogo è nostra, della nostra Italia bipolare e lacerata.
La trama di Italiano Medio evita il grande rischio di un film del genere: la continua sequela di gag comiche sconnesse. Rispetto infatti all’inconsistente sviluppo narrativo dei Soliti Idioti, i quali inanellavano un’infinita serie di gag, accumulando tutti i loro personaggi senza coerenza alcuna, la trama dell’Italiano Medio è costruita in modo coerente, in cui molti elementi rimandano certo all’universo “altro” di Maccio Capatonda (Mariottide, Mario, ecc.), restando però esclusivamente impliciti rimandi. Tutto nel film, nella follia e nel non-sense che caratterizza Marcello Macchia fin dagli albori, diventa sostegno allo scorrere della narrazione.
La mia domanda non era vana. Un messaggio profondo ce l’ha. Il poliedrico Maccio ci fa ridere di noi stessi. Delle nostre ipocrisie, degli integralisti della cultura alta, del veganismo e dell’ambientalismo, quanto dei lascivi, sconsiderati e pseudo umanoidi personaggi televisivi in una galleria di mostri contemporanei e di quotidiane nefandezze. La trama, che potete benissimo capire guardando il trailer, senza che questo però vi rovini il colpo di scena conclusivo, è basata quindi sulla bipolarità totale tra i due protagonisti.
Impegno civile e ambientale da una parte, menefreghismo, ignoranza, sfrenatezza e sesso mania allucinante dall’altra. L’alter ego buzzurro, creato quasi per errore con una pillola che abbassa le capacità intellettive, diventerà poi arma per il raggiungimento di più alti scopi, perché «tra il dire e il fare c’è di mezzo il male». La duplicità di Giulio Verme, presto fuori controllo, si ricongiungerà in una sintesi che NON porta semplicemente lo spettatore alla morale della “virtù che sta nel mezzo”.
Non si può parlare di semplice lieto fine, di ritorno a una normalità. La riunificazione delle due metà darà come risultato una persona che unisce tra loro opposti inconciliabili senza porsi questioni: «ho capito che esistono i compromessi, che niente è negativo e basta. Cioè, ad esempio, ho capito che si può essere vegani e mangiare il porco fritto, che si può fare beneficenza e nello stesso tempo scialacquarsi i soldi a donnacce, che si può condurre una vita sana e drogarsi molto, che si può essere impegnati socialmente e politicamente e nello stesso tempo fregarsene di tutto... finché siamo in Italia».
Insomma, tra il Giulio Verme che si eccitava sentendo “protocollo di Kyoto” e che non voleva avere figli per non pesare sull’ecosistema e quello che pensava solo a “scopare”, troviamo noi stessi, definiti dal “copulare” finale.
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