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2 febbraio 2017

La ragazza nella nebbia di Carrisi sarà un film con Toni Servillo

Notiziona fresca fresca. Se siete amanti di Donato Carrisi, l'autore italiano di thriller più venduto al mondo, con oltre un milione di copie vendute solo in Italia, sarete felici di sapere che a marzo diventerà anche regista. Carrisi si sitemerà dietro la macchina da presa per girare la trasposizione cinematografica del suo La ragazza nella nebbia che vedrà come protagonisti niente popo di meno che Toni Servillo e Alessio Boni.

L'uscita è prevista per la prossima stagione e, nonostante non sia ancora stato girato, già stimola un grande interesse di pubblico e critica, anche a livello internazionale; ricordiamo che Carrisi viene tradotto in ben 24 paesi del mondo. Per quanto ridotte le informazioni per ora disponibili sono abbastanza nette: la trama rispecchierà a fondo quella del romanzo, ideato - come afferma lo stesso scrittore - già pensando a una possibile trasposizione su pellicola.

Per chi non avesse letto lo splendido romanzo, tutto ha inizio con il rapimento di una bambina in un paese di montagna per diventare poi un inquietante racconto sulla spettacolarizzazione del dolore e delle tragedie e sulla messa alla gogna mediatica del mostro, già dato per colpevole ancora prima del processo. Così, giusto per completezza, concludiamo linkando tutte le informazioni sul romanzo, così, magari, oltre che vedere solo film, ci scappa di leggere pure qualche libro. Se poi siete troppo pigri per leggere la sinossi, ecco il booktrailer su Youtube.


1 febbraio 2017

Assassin’s creed - il film, per me è no

I fan del celebre videogame attendevano questo film da molto; quando poi è uscito il trailer, sono andati in visibilio. Il protagonista è Michael Fassbender? Isteria collettiva. Infatti, nemmeno a farlo apposta, l’unica nota positiva del film è proprio lui; d’altra parte doveva recitare anche per Marion Cotillard che, praticamente, possiede una sola espressione.

Chi scrive ha passato diverse ore nei panni di Ezio e altrettante sulle navi di Black Flag e Rogue e non si capisce perché Assassin's Creed che, di per sé, ha una trama complessa e affascinante, debba essere reso ancora più complicato senza però tener conto di ciò che è stato nella saga videoludica.

È assolutamente corretto dare spazio anche a chi non ha mai giocato nei panni degli assassini, ma in questo caso era necessario fare una scelta più netta: o spieghi tutto a favore dei non appassionati, strizzando però ogni tanto l’occhio ai fan (citazioni, oggetti, frasi, situazioni, ecc.), oppure dai molto per scontato e spieghi ai non videogiocatori il giusto per rendere la trama godibile.

Qui invece abbiamo i primi delusi per la mancanza di coerenza con i videogame e per l’assenza di citazioni stuzzicanti e i secondi straniti da una trama confusa e mal strutturata, in cui le parti nel presente sono a tratti schizofreniche. 

Alcuni l’hanno definito il “miglior film tratto da un videogame” e forse hanno anche ragione, sebbene i contendenti siano poco più che pellicole di serie Z. Personalmente poi non ho molto apprezzato l’idea che gli Assassini siano “geneticamente portati alla violenza, all’omicidio e al caos” con un rispolvero di teorie dal sapore lombrosiano che fanno abbastanza accapponare la pelle. Chiunque, nella situazione in cui viene a trovarsi il Fassbender bambino, sarebbe potuto diventato un criminale. 

Ma veniamo alla trama e ai suoi buchi. Fassbender, omicida, muore per iniezione letale. Una mega società multinazionale, l’Asbergo, lo salva perché è il discendente diretto di un Assassino vissuto nel tardo 1400. Questa società possiede un macchinario, l’Animus, che è in grado di far rivivere a Fassbender i ricordi “genetici” del lontano parente, il tutto per riuscire a scoprire dove l’antenato ha nascosto un artefatto dall’incredibile potere. Sullo sfondo la  millenaria lotta tra i Templari, ancora oggi esistenti e sempre intenzionati a rendere schiava l’umanità, e la setta degli Assassini, difensori del valore del libero arbitrio, sebbene portato all’estremo. 

Questa in soldoni la trama. Aggiungiamo che ogni volta che Fassbender viene connesso all’Animus rischia di morire e che i Templari lottano contro il tempo per ritrovare l’artefatto; fin qui tutto ok, però perché allora gli unici ricordi che gli fanno rivivere, per intere giornate, sono fughe rocambolesche fra i tetti, omicidi spettacolari, ecc. Non era più sensato andare avanti veloce fino ai  momenti veramente utili alla ricerca dell’artefatto? 

La risposta è facile: il film è basato sulle scene d’azione e punta esclusivamente su quelle. Perfetto, ma se sacrifichi la sceneggiatura per la componente visuale e lo spettacolo, poi non ti lamentare se la gente che si aspetta qualcosina di più di un documentario sul parkour in costume storce il naso. Infine, e con questo concludo, mi trasponi sul grande schermo il “salto della fede” e mi tagli l’atterraggio?

26 giugno 2016

Tutti vogliono qualcosa: recensione di un inaspettato grande film


«Ci sono film che non chiedono il permesso, entrano, catturano lo spettatore e se ne vanno via, lasciando strascichi di ricordi, immagini, sentimenti e note che fanno sorridere, che fanno riflettere». Questa è la lapidaria ma eccezionalmente valida definizione che Telefilm-central dà di Tutti vogliono qualcosa (Everybody Wants Some!!), il nuovo film di Richard Linklater.

Ognuno dei personaggi di questo film corale, impalpabile documentario di un’intera generazione, desidera qualcosa e farà di tutto per ottenerla. Il tutto narrato in un flusso continuo di episodi, serate alcoliche e notti insonni, che si uniscono senza annoiare mai. La tragicommedia, l’umorismo di pirandelliana memoria, ossia quello che suscita una riflessione agrodolce, è sempre (o quasi) presente, nella continua e titanica lotta per la conquista, fra le altre cose, dell’altro sesso.

Animal House, altrettanto godibile pellicola corale (1978) sulla folle vita universitaria statunitense (argomento su cui sembrava che tutto fosse stato detto e raccontato in tutti i modi, con mille obiettivi e filtri differenti), nel finale, con quelle scritte che evidenziano il destino dei ragazzi, dava una soddisfazione allo spettatore che, banalmente, veniva a conoscenza del futuro.

Qui si entra e si esce talmente rapidamente dalle vite di questi campioni di baseball che l’unica cosa che rimane è la sensazione di aver partecipato a un momento grande e irripetibile. Quello che resta, infatti, sono solo le speranze e le aspettative che aleggiano nell’aria, senza concretizzarsi o essere smentite; nemmeno una partita ci viene concesso di vedere, per capire almeno se i ragazzi erano solo smargiassi o veri campioni. 

La pellicola è scandita da un timer che scorre, con giorni e ore, creando l’attesa di un grande evento che poi è, semplicemente, il primo allenamento domenicale, «facoltativo ma obbligatorio», prima delle amichevoli autunnali; un non-evento quindi, un momento in cui non accade nulla di importante, in cui non si decidono titolari e riserve, in cui le matricole non dimostrano, agli increduli veterani, le loro eccezionali abilità sportive. È un semplice allenamento, un evento tra i tanti nel flusso delle vite dei giovani.

18 maggio 2016

Zona d'ombra, un film coraggioso contro il football


Zona d'ombra - Una scomoda verità è un titolo troppo blando. Non rende il senso vero di un film coraggioso. Qui si parla di “Concussion” (questo il titolo originale), di “commozione cerebrale”. Per chi ama il football è un colpo al cuore. La spettacolarità dello sport sta proprio nelle corse, nei rapidi cambi di direzione, nei salti al limite dell’umano ma soprattutto nel pericolo che i ragazzoni vestiti come se andassero a un torneo medievale corrono ad ogni singola azione. Potenza bruta, uomo contro uomo, ancestrale scontro tra arieti, montoni, rinoceronti, cervi dai palchi imponenti, ecc. ecc. ecc.

Da una simile citazione naturalistica parte l’assunto base del film: non siamo stati creati per quel genere di scontri testa contro testa. Il nostro cervello, molle oggetto in una scatola chiusa, non può sopportare quei colpi ripetuti, quelle microlesioni che prendono il nome di CTE (encefalopatia cronica traumatica). Follia, aggressività, depressione, ecc. sono le conseguenze a lungo termine, disturbi di cui i giocatori professionisti di football sembrano soffrire.

Giocare a football, in soldoni, fa male. Tanto male. Ma è anche lo sport più amato e remunerativo d’America. Per The Event, il superbowl, la finale del campionato NFL, gli Stati Uniti si fermano. Come conciliare allora la sicurezza e la salute dei giocatori con le esigenze di guadagno di un mondo che dà lavoro a migliaia di persone? È un po’ lo stesso dilemma che sorge tra le esigenze ambientali o di salute degli operai di una fabbrica e la necessità di doverla tenere aperta, nonostante sia inquinante, per fare i modo che le persone possano continuare a lavorarci.

Questo amletico dubbio, tuttavia, per il dottor Bennet Omalu è semplice da risolvere. Lui deve denunciare, deve far sapere al mondo ciò che nemmeno i giocatori sanno: giocare a football fa impazzire. Il film si basa tutto su questo: la ferrea volontà del dottore, supportato da altri colleghi e osteggiato da molti altri, e i tentativi di insabbiamento della NFL. La vicenda prosegue per alcuni anni. Quando però la verità diventa talmente evidente da essere ovvia, la Lega riconoscerà il problema.

Quindi le ipotesi di Omalu si dimostrano esatte, di football si muore. Gli eventi narrati coprono gli anni dal 2002 al 2006 circa, quindi qualcosa è cambiato oggi? Il film dà una risposta che ci limiteremo a raccontare: il dottore, nella scena finale, dopo aver ricevuto un’offerta di lavoro eccezionale dal governo statunitense, si ferma davanti a un campetto dove due squadre si stanno allenando. Parte l’azione, un giocatore palla stretta in mano si lancia in corsa mentre un difensore si prepara ad affrontarlo. L’ultimo frame inquadra i due ragazzi un decimo di secondo prima dello scontro, testa contro testa.

14 luglio 2015

Un milione di modi per morire nel West, perla semisconosciuta di Seth MacFarlane


Nell’Arizona del 1882 c’è un uomo, Albert Stark, inetto e inadatto alla società della violenza e del sopruso, oltre che della morte continua e persistente. E' lui il protagonista di Un milione di modi per morire nel West, pastore capace di risolvere i duelli solo a chiacchiere che, oltre a odiare con tutto se stesso il mondo in cui vive, viene persino lasciato dalla fidanzata per un uomo più ricco e dai baffi curatissimi, “accessorio facciale” più volte messo in risalto nel film; quello dei baffi, oltretutto, è solo uno dei mille luoghi comuni dei film western che Seth MacFarlane si diverte a dissacrare

dalla fiera in cui si muore con una facilità disarmante e persino assurda in cui un ciarlatano vende elisir miracolosi e un altro propone un tiro a segno in cui bisogna sparare agli schiavi neri che scappano, alle risse da saloon in cui Albert e il suo amico Edward fingono di picchiarsi pur di non essere messi in mezzo, agli indiani che sono solo “egoisti” visto che il paese sta venendo diviso a metà, alla moda femminile del tempo derisa senza pietà, alla colonna sonora in perfetto stile western e alle riprese delle distese rocciose e delle praterie sconfinate. 

Come negli altri film del buon Seth (autore de I Griffin) non manca nemmeno l’abuso di droghe per le quali Albert ha una sensibilità eccessiva, tale che quando le assume, oltre a pensare che i cani della prateria gli leggano nel pensiero, subisce visioni rivelatrici in stile Dalì. 

Inutile dire che il divertimento non manca, grazie a un continuo spiazzamento delle attese, dai salti nella contemporaneità (Albert discute con l’amico del fatto che i ragazzini si rimbambiscano a giocare solo con il cerchio e il bastone, che questo divertimento gli affosserebbe la fantasia … un po’ come i videogame oggi …)  e nella citazione più evidente (in un capannone illuminato Albert trova Doc di Ritorno al Futuro armeggiare con la Delorian e alla fine persino Django fa un cameo, uccidendo il proprietario del tiro a segno razzista), alla volgarità talmente smaccata e programmatica da non mostrarsi come tale. 

Basti dire che l’amico Edward è promesso a una prostituta che non vuole fare sesso con lui perché desidera attendere la prima notte di nozze, salvo poi esporgli tranquillamente i dettagli dei suoi incontri di lavoro.

Un milione di modi per morire nel West, tuttavia, non è una semplice parodia del genere. È ben costruito e assolutamente coerente nella sua trama, grazie anche alla sorprendentemente simpatica Charlize Theron e a un Liam Neeson già visto con piacere in un cameo spettacolare in Ted 2. Per quanto scontata nel suo lieto fine, però, il tutto risulta estremamente godibile e spassoso, ricordandoci i migliori lavori di Mel Brooks, maestro e mentore di Seth.

27 giugno 2015

Jurassic World, dinosauri senza emozione


Difficile dire cosa non mi abbia convinto in Jurassic World. L’azione c’è. L’ironia, fatta dagli stessi personaggi sugli aspetti più scontati della trama, pure. La suspance, insomma. Quelli che incontrano l’Indominus Rex, poco ma sicuro, ci rimangono, visto che fin da subito è chiaro che il nostro giurassico amico uccide per puro divertimento. La trama ha dei tratti originali (l’addestramento dei Velociraptor per scopi bellici, ad esempio), sebbene lo schema vincente “dinosauro cattivo-umani che scappano” non permetta grosse divagazioni. A correggere le manchevolezze di una sceneggiatura talvolta troppo elementare concorrono comunque le buone scelte di casting, con l’accoppiata Bryce Howard / Chris Pratt (il maschio alfa) che va alla grande.

Volendo fare a tutti i costi le persone d’alta cultura potremmo addirittura vedere in Jurassic World una sorta di peccato di hybris, ossia “la superbia degli uomini che sfidano le leggi divine”: l’uomo, nuovo demiurgo, forma la natura per necessità di marketing, creando un abominevole ibrido geneticamente modificato che in sé somma tutte le più terribili caratteristiche omicide del predatore, compresa l’intelligenza e la capacità (o mmmmmio Dio) di mimetizzarsi come un camaleonte e di rendersi invisibile agli infrarossi. Insomma una moderna macchina da guerra.  

Ovviamente, queste straordinarie capacità, sconosciute agli scienziati (molto cortese farle scoprire ai soldati mandati per uccidere la nuova specie … ), sono frutto degli innesti di DNA di camaleonti, rane, salamandre, serpenti, ecc. necessari per completare la sequenza genetica, esattamente come era successo nel primo film.  Nella prima pellicola, infatti, i dinosauri, creati tutti femmine, riuscivano a sorpresa a riprodursi in autonomia grazie ai geni di una particolare rana in grado di mutare sesso. Come al solito, insomma, non impariamo mai dai nostri errori.

In ogni caso, saranno poi le specie “naturali”, ossia quelle realmente esistite, a coalizzarsi nell’epilogo per eliminare l’obbrobrio assassino. Ecco un altro punto interessante: uno scontro tra il “naturale” e l’artificiale, tra i lucertoloni realmente esistiti e quello creato, nato e cresciuto in laboratorio. Veramente epica la lotta finale tra l’Indominus e il Tirannosauro che vede la vittoria  dell’unico vero Rex, fino a quel momento quasi assente, che si conquisterà anche la scena finale, con l’ormai classico ruggito dalla collina.  

Avvincente anche l’eterna competizione per il ruolo di maschio alfa per il controllo del branco dei Raptor; una dinamica che si ritrova persino nella scena del Mosasauro che si pappa lo squalo bianco: un vecchio predatore che annichilisce quello che dovrebbe essere il maschio alfa dei mari odierni. A parte tutto questo, tuttavia, al film manca qualcosa. Mancano i dinosauri fine a se stessi, manca l’emozione (quella del bambino non è all’altezza, è troppo scontata) di chi vede i dinosauri per la prima volta.



È un film d’azione, come il terzo capitolo della serie di Jurassic Park, nulla di più. Vedendo la scena dell’incontro dei paleontologi con il brachiosauro (e l’abile mano di Spielberg alla regia) o quella del Triceratopo malato nel primo film della serie, mi vengono ancora i brividi. Forse, però, nel 1993, gli effetti speciali che facevano rivivere i dinosauri sullo schermo potevano ancora dare queste emozioni, oggi, che al digitale e alle sue finzioni siamo assuefatti, tutto questo non è più possibile.


24 giugno 2015

Jupiter Ascending: i Wachowski fanno flop?


La critica lo ha stroncato, il pubblico ha lanciato le bibite contro lo schermo e i bambini hanno pianto. Eppure a noi è piaciuto. Il critico cinematografico del “Guardian” Mark Kermode lo ha definito “assolutamente nonsense”. Eppure a noi è piaciuto. Se Jupiter Ascending è un “nonsense”, allora lo è anche Matrix. Alzi la mano chi, alla fine del terzo film della trilogia di Neo, ha avuto la sensazione di aver compreso perfettamente tutto quello che c’era da capire. Se avete alzato la mano, tiratela giù perché tanto state mentendo.

In entrambe queste pellicole, infatti, è proprio l’esorbitanza dell’universo creato, l’immensità dell’affresco a lasciare esterrefatti pubblico e critica. Insomma, risulterà sempre un nonsense a chi non si concentra per comprendere le dinamiche politico-economiche-sociali che stanno alla base della trama più spicciola, a cogliere gli elementi descrittivi di un universo estremamente complesso:

c’è Horus, il vero pianeta di origine della razza umana, soffocato dalla sovrappopolazione e dalla burocrazia, i cui ingranaggi si oliano, persino nella fantascienza, con le mazzette; c’è Giove, trasformato in fornace industriale (molto simile al Mustafar di Star Wars); c’è la Terra, ridotta a uno dei tanti “allevamenti” per ricavare l’elisir dell’eterna giovinezza; un universo in cui il crudele Balem è spinto, come ci racconta in un lungo monologo, dal profitto e dal soddisfacimento delle leggi di mercato.

Dietro tutto questo c’è sempre lo zampino dei fratelli Wachowski (questa volta violentemente critici con il capitalismo più sfrenato, quello che per creare un misero flacone di elisir d’immortalità miete cento vite) che proprio dal loro più grande successo raccolgono a piene mani: al centro dell’immaginario catastrofico dei due registi-sceneggiatori c’è sempre la coltivazione (e la mietitura) della razza umana; gli uomini, da predatori di risorse planetarie (come in tantissima fantascienza), sono ancora una volta risorse essi stessi, prede di altri crudeli coltivatori.

Antichissime famiglie spaziali inseminano con i propri geni pianeti disponibili alla vita (sulla terra hanno anche fatto estinguere i dinosauri) e quando la popolazione raggiunge un numero congruo viene mietuta per ottenere una sostanza luminescente blu che permette di vivere in eterno. I diritti di mietere questo raccolto di vite umane nei diversi pianeti sono dei tre rampolli della famiglia Abrasax, entrati in possesso dei vari mondi dopo l’assassinio della madre (indovinate chi ha fatto in modo di liberarsi della vecchia mammina?).  

Detto questo, la trama (quella spicciola) è indubbiamente banale e scontata, per quanto l’azione sia ben costruita e sempre dinamica; forse però, proprio il fatto che lo spettatore non debba focalizzarsi sul succedersi degli eventi, dovrebbe spingerlo a concentrarsi sui dettagli utili a ricostruire il mondo in cui l’azione si svolge.

Caine, un misterioso e sensuale ibrido uomo-lupo (Channing Tatum), inizialmente assoldato per trovarla, è poi sempre e comunque pronto a combattere per salvare la bella donzella in pericolo Jupiter (Mila Kunis); la ragazza è l’insospettabile reincarnazione genetica (e quindi ereditiera ufficiale), nata sulla terra, della madre dei tre rampolli di nobile lignaggio che già si stavano godendo l’eredità ed erano pronti a mietere il loro sanguinoso raccolto. Quindi, essenzialmente, il bieco motivo di tanti sforzi profusi per l’uccisione dell’affascinante Jupiter riguarda mere questioni ereditarie.

Non c’è tuttavia da preoccuparsi, il bel principe azzurro sul suo bel cavallo bianco arriverà sempre in soccorso, con i suoi rollerblade a inversione di gravità, della fanciulla in caduta libera; tranne quando lei, tutta da sola, riesce a prendere a sprangate il cattivo. Dal punto di vista della trama, evidentemente, c’è stato un salto indietro di 20 anni. Persino la Disney, ormai, ha ceduto al girl power (The Brave, Frozen, ecc.), alla fanciulla che si salva da sola, che degli uomini, in realtà, non ha neppure troppo bisogno.

Potremmo però dire anche la stessa cosa di Avatar: la trama è niente di più che quella di Pocahontas, eppure ha raggiunto incassi nell’ordine dei miliardi di dollari. Il fascino dell’universo di Avatar, però, stava nella sua evidenza immaginifica, nella sua facilità di fruizione: strani animali, foreste intricate luminescenti, crudeli società predatrici di risorse (ancora l’uomo arraffone, oltretutto), ecc. Insomma, nulla per capire il quale servisse spremersi le meningi.

Bravo il premio Oscar Eddie Redmayne nella parte di Balem, il patologico (e con un rapporto con la madre parecchio ambiguo) primogenito di casa Abrasax; Mila Kunis fa quello che deve con quei begli occhioni profondi e lo sguardo da pesce arrapato quando guarda l’uomo-lupo, con il quale ci prova spudoratamente ma lui, per assurde motivazioni di “ceto sociale”, la ignora; Channing Tatum, oltre a frustrare il desiderio sessuale di Jupiter (salvo alla fine), essenzialmente spara, dinamico e travolgente come sempre.